PAURA DI PERDERE
C’è un tempo vivo e un tempo non-vivo. Una persona è non-viva quando… ha paura.
Non basta respirare per potersi definire vivi.
Marlo Morgan
Sono quasi due anni che Azzurrina ha un sogno. Non so se l’avete presente: la mitica vecchina dai capelli azzurrini, saggia e sferruzzante con i golfini per il nipotino.
Lei che è sopravvissuta eroicamente all’assalto ai suoi risparmi da parte di Ilario il Funzionario, il bancario efficiente che ogni tre giorni, da anni, cerca di appiopparle fondi e polizze iper costose; lei che è sopravvissuta ai lockdown vivendo in solitudine per mesi, camminando su e giù per il corridoio per tenersi in forma… Adesso, sta inziando ad accusare il colpo.
Dopo quasi due anni senza un bacino dal nipotino, lei comincia a cedere. Lo sogna ogni giorno. Anche solo un abbraccio le andrebbe bene.
Ma i genitori del bimbo (suo figlio e la nuora, sulla quarantina) lo tengono a distanza. Gli fanno vedere la nonna e gli dicono, con l’indice alzato:
“Duccio, non ti avvicinare! Potresti contagiare la nonna, che poi MUORE”. E gli rimettono subito la mascherina.
Così, Duccio, il nipotino di Azzurrina, convinto che la nonna morirà per colpa sua, è già dallo psicologo, dove ormai c’è più fila che al Black Friday per il nuovo iPhone.
A proposito di fila…
L’altro giorno ero in fila davanti a un negozio. Di fronte a me c’era un padre con il figlio sui 5/6 anni, come Duccio. Per fortuna dava ancora segni di vita, nel senso che non stava un attimo fermo, girellava, giocava e, naturalmente, toccava le cose. A un certo punto ho visto il panico negli occhi del giovane genitore, che si è precipitato nel negozio, ha preso una colata di gel dal dispenser e ci ha inzuppato le mani del figlio, esclamando: “Non toccare più niente!”
Mentre mi chiedevo perché la scena mi suonasse tanto stonata, mi è cascato l’occhio su questo articolo:
Virus respiratorio neonati, nel 2021 più casi e più gravi
L'allarme lanciato da neonatologi e pediatri. Lancet: "Paghiamo debito immunità con interessi"
C’è questo virus respiratorio (virus respiratorio sinciziale, Vrs) che ogni anno colpisce un certo numero di neonati e bambini molto piccoli. Solo che a quanto pare quest’anno l’epidemia stagionale del virus è iniziata in anticipo e sembra si stiano registrando casi più gravi del solito, con molti ricoveri dei piccoli.
Spiega la presidente della Società italiana di pediatria:
"Lo scorso anno, le misure anti-Covid hanno limitato la circolazione del virus. Ma questo ha verosimilmente ridotto anche la risposta anticorpale nei confronti del patogeno".
Alcuni ricercatori, sull’autorevole rivista scientifica Lancet, parlano di “debito di immunità accumulato grazie alle misure adottate in tempi di pandemia, che ora paghiamo con gli interessi".
Che a me, che non sono né un pediatra né un ricercatore, suona un po’ così: a forza di scorticargli le mani con il gel e imbavagliarli, i bambini non hanno più anticorpi, e quindi, come minimo si ammalano di più.
Così, mi torna in mente una scena di tanti anni fa, quando una delle mie puffette aveva 11 mesi e doveva venire con noi in Africa.
Contattai diligentemente il servizio per i viaggi internazionali della Asl, dove un operatore piuttosto sbrigativo mi dipinse uno scenario apocalittico, raccomandando per mia figlia (che aveva già effettuato tutte le vaccinazioni pediatriche standar) la stessa sfilza di vaccinazioni e profilassi valide per me. Tipo, per intendersi, la profilassi antimalarica: dei pasticconi da prendere regolarmente a partire da quattro settimane (o due, ora non ricordo) prima della partenza, che ogni volta ne ingoiavo uno mi sembrava di aver sganciato una bomba al napalm sul fegato (e poi stramazzavo boccheggiando). “Ma visto che è piccola, le dia solo un pezzetto di pasticca”, mi disse il valente addetto.
“Ma… è sicuro debba fare anche il vaccino per l’epatite A?” – ai bambini piccoli si fa il vaccino per la B – “E il tifo? Non sarà un po’ piccola?”
“Certo, va fatto! Una dose e poi il richiamo…”
Mia moglie, africana, assisteva incuriosita a questo scambio. Alla fine sentenziò: “They’re crazy”, sono matti.
Preoccupatissimo riuscii a fissare un incontro con il primario del reparto di Malattie Infettive dell’ospedale pediatrico.
Era un anziano signore con il camice bianco svolazzante e i capelli dello stesso colore, lunghi e puffosi sulle tempie. Ascoltò pazientemente il mio racconto, mentre sulle mie ginocchia la pargola di 11 mesi con il cestino di riccioli in testa lo guardava e si ciucciava le manine sbrodolando ovunque. Finito il mio racconto lui rimase un po’ in silenzio. Poi si tolse gli occhiali, si stropicciò gli occhi e scosse la testa. Eliminò i tre quarti delle cose che ci avevano detto di fare.
Poi la prese in braccio e disse:
“Per carità, lasciate che si strusci in terra, che giochi con i cuginetti africani, in terra, sulla sabbia… e se ne mangia un po’ va bene lo stesso. Almeno produce anticorpi. Alla sua età è la cosa migliore da fare: solo così potrà sviluppare un sistema immunitario potente che le servirà per tutta la vita”.
Me la restituì staccandola dal camice che nel frattempo lei aveva preso per un nuovo ciuccio.
Così, ogni volta che vedo le colate di gel sulle manine o i bambini che vanno all’asilo con la mascherina, penso che forse ci vorrebbe un’epidemia di buon senso.
Penso che il primario di allora direbbe che li stiamo indebolendo. Era certamente un uomo di altri tempi. Oggi siamo avanti: abbiamo una medicina per tutte le occasioni. Quando vedo le mamme terrorizzate che in farmacia comprano il cortisone e l’antibiotico per il mal di gola del pupo mi viene da pensare. Che poi, un antibiotico è per sempre.
La paura, sempre la paura. Sta diventando il sottofondo delle nostre vite.
A proposito di nipoti. Ursula, la nipote 18enne di Bottavio (il risparmiatore timorato che investe solo in Bot), dopo aver passato un anno sdraiata sul letto a fare la didattica a distanza, ora è terrorizzata e arrabbiata.
A forza di guardare video di catastrofi naturali con il volto di Greta che con aria severa da Santa Inquisizione punta l’indice, Ursula si è convinta che non abbiamo futuro. In preda all’eco-ansia, sta calando in depressione. Un giorno è incazzata con il mondo e l’altro è sdraiata, oppressa dal futuro cupo: finiremo arrostiti, sommersi, soffocati, appestati...
Naturalmente i media, come sempre, ci vanno a nozze a spargere terrore e veleni. Immagino che a breve si scoprirà che il calendario Maya era sbagliato: la data della fine del mondo non era 21/12/2012 (come ci hanno martellato all’epoca), ma 21/12/2021. Prepariamoci.
Scrive Pietrangelo Buttafuoco:
“Il mondo occidentale è una grande sala d’attesa dove si passa da un’emergenza all’altra”.
È vero: siamo sempre in attesa. Il sistema è strutturato per farti stare sospeso, in attesa. Ti porta a vivere in un presente imperfetto, sospeso fra un passato dove ci si deve sentire in colpa e un futuro per il quale ci si sente inadeguati e preoccupati. Un futuro che è per definizione incerto e, nella maggior parte dei casi, carico di brutte sorprese, brutti presagi. Vivendo in attesa di questo futuro si vive per definizione nell’incertezza.
Il tutto ormai è sistematizzato, automatizzato. Ci sono i “protocolli” che guidano la nostra vita. Così, se vai a farti una visita per controllare un neo, entri nel girone dell’attesa: il protocollo prevederà per te accertamenti a scadenze programmate per tutta la vita, perché potresti diventare grave. E allora, l’esercizio da fare è quello di cercare di vivere senza ansia fra un appuntamento e l’altro.
Ci vuole una grande energia per non farsi travolgere da questo tsunami di incertezza e negatività irrorato a getto continuo ovunque.
Provati da questo sforzo è facile lasciarsi andare. Specialmente con lo stato di emergenza continua (la minaccia del terrorismo, la crisi economica, la pandemia, il disastro ambientale, l’inflazione devastante…), che fiacca la resistenza. Ed è più facile quindi accogliere a braccia aperte chi promette di occuparsi di te, di agire per il tuo bene… Perché l’alternativa è la paura. Paura di perdere qualcosa.
Mi fanno sorridere quelli che subito si inalberano e parlano di complotti e complottismi. Non si tratta di complotti. Non c’è nessuna Spectre con il mega cattivo dei film di James Bond che vuole dominare il pianeta. Semplicemente, il mondo è guidato – da che mondo è mondo, appunto – dagli interessi economici. Alla cui base ci sono ciò che il Buddismo chiama non a caso i Tre Veleni, le cause principali dell’avvelenamento dell’esistenza umana: avidità, arroganza, stupidità.
Che se uno volesse proprio pensare (non dico “pensare male”, basterebbe solo pensare) gli potrebbe venire il sospetto che in fondo a qualcuno conviene se tutti si ammalano (o hanno paura di ammalarsi) più facilmente. Se viene inculcata la cultura della paura, per cui il sistema immunitario dei bambini viene smantellato pezzo per pezzo, loro in futuro saranno più vulnerabili. Se tutti avranno sempre più bisogno di medicine, qualcuno ci guadagnerà di più, no?
Non c’è nessun complotto: è una semplice ricerca di profitto. Alla quale o si soccombe, o si ricomincia a pensare e ci si difende. Prima di tutto difendendo la propria autonomia. Intesa anche come autonomia di giudizio e autonomia di pensiero. Ma bisogna volerlo: saper essere liberi non è facile.
Ma oggi c’è questa divisione perenne. Qualunque sia il tema, scattano automaticamente le fazioni. Si alzano subito le dighe, i muri, e le due parti iniziano a prendersi a sassate. Ad esempio sui social, per qualunque argomento, ci sono quelli che mettono i cuoricini o i leoni da tastiera, gli haters.
Il dibattito, il dialogo non esiste più. Pare che esista solo lo scontro. Che ovviamene non porta a nulla di buono. Mi pare che siamo immersi in un clima dove l’importante è dimostrare di aver ragione, e non risolvere i problemi.
Ricordo quando ero piccolo e il mio babbo mi portava allo stadio. Allora l’interesse fondamentale era la partita, il gioco. Per questo i tifosi delle due squadre erano spesso mischiati: non erano lì per litigare e sopraffare, ma per guardare una partita di calcio. Al massimo c’era l’ironia, si prendevano in giro. L’ironia, si sa, alleggerisce. Oggi sembra scomparsa, e infatti tutto è più pesante.
Questa sala di attesa dove siamo confinati, come dice Buttafuoco, sembra il luogo perfetto per fare esperimenti. Un vero laboratorio. Grazie alla paura dell’emergenza si fanno le prove. Sì, perché quando si è in emergenza tutto si può fare. In particolare si possono fare intervenire i “tecnici”, gli “esperti”, i tecnocrati che pontificano. E chi ha paura, tutto lascia fare. È per il suo bene, gli dicono, per il bene di tutti noi. E lui è anche contento, sollevato che qualcuno si prenda cura di lui. Sollevato dallo sforzo di pensare e dubitare e approfondire.
Ad esempio, si fanno le prove per vedere quanto ci si può spingere con le tecnologie non proprio democratiche, prima che qualcuno se ne accorga.
Non sono solo i protocolli a guidare la nostra vita. Ci sono anche gli algoritmi, i processi di decisione automatica (Automatic Decision Making).
Anni fa, nei primi numeri di Bassa Finanza parlavo degli algoritmi che guidano il trading computerizzato nei mercati finanziari. Quelli che fanno migliaia di operazioni in un secondo, guidati da super computer. Li chiamavo Algoritmi piranha, perché possono spolpare un incauto umano investitore in pochi attimi. E, se agiscono in branco, possono influenzare gli andamenti delle Borse.
Ma oggi gli algoritmi automatici dilagano in ogni campo, sempre più presenti nella vita di ogni giorno.
Prendiamo il riconoscimento facciale. Una figata, no? Diventa di uso comune, ad esempio per sbloccare il cellulare (salvo quello della Bella Figheira, che la mattina appena alzata e senza trucco lui si rifiuta di riconoscerla).
Una figata anche in Cina, dove le telecamere (che sono ovunque) sono in grado di riconoscerti in tempo reale se, ad esempio, attraversi la strada fuori dalle strisce. Che poi ti arriva la multa a casa. Ed entri nella lista nera.
O magari sei stato visto per strada accanto a un “dissidente” sgradito al Partito, che non conoscevi, ma ci hai scambiato due parole perché ti ha chiesto che ore sono. Dopo lo scanner del tuo viso con segnalazione in real time, vallo a spiegare alla psico-polizia che tu quello lì neanche lo conosci. Invece entri nella black list dei sorvegliati.
Ma no, noi non siamo mica in Cina. Oh, a proposito: avete notato che, praticamente a ogni angolo di strada, a ogni lampione ora c’è attaccato un grappolo di telecamere? Naturalmente sono per il nostro bene, per la nostra sicurezza.
Il problema è che, mentre un tempo si diceva: “Prima viene l’essere umano. La persona al primo posto”, oggi il motto pare essere diventato: “Prima la tecnologia”. I tecnici come sacerdoti del nuovo Verbo.
Nelle alte sfere (tipo Ue, per intendersi) c’è una tale eccitazione per le figate tecnologiche che in pochi sembrano preoccuparsi delle implicazioni sulla democrazia e la privacy. Chilavrebbemaidetto.
L’Automatic Decision Making sta diventando un modello di vita sociale: ci sono algoritmi che ti guardano, ti ascoltano, leggono ciò che scrivi, controllano cosa fai, nelle migliaia di interazioni tecnologiche che abbiamo ogni giorno. Decidono cosa puoi o non puoi fare, ti assegnano un punteggio, stabiliscono a cosa hai diritto e a cosa no.
E, come scrive Fabio Chiusi di Algorithm Watch, organizzazione internazionale non-profit che ne studia l’impatto sulla società, nel report “Automating Society 2020”:
“Gli algoritmi non sono né ‘neutrali’ né oggettivi, anche se tendiamo a pensarlo. Replicano, invece, gli assunti e le credenze di chi decide di adottarli e programmarli. È sempre un umano dunque, non ‘gli algoritmi’, a essere responsabile sia delle buone che della cattive decisioni algoritmiche”…
Il che significa che fra umani si potrebbe ancora dibattere, dialogare, farsi sentire, eventualmente protestare, per decidere se certe scelte siano rispettose o meno di una concezione democratica. Sempre che uno sia ancora desto.
Ma, come dice il proverbio:
“E’ facile svegliare uno che dorme, ma è impossibile svegliare uno che fa finta di dormire”.